Sommario
Mirco Toniolo/Errebi / AGF
Tre giovani laureate della Ca’ Foscari di Venezia
Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, vorrebbe abolire il valore legale del titolo di studio. Non è una novità: per la Lega si tratta di una battaglia che data ai tempi in cui si accusavano le università del sud di essere più generose nei voti di laurea rispetto a quelle del nord e di avvantaggiare così i meridionali – o chi aveva studiato in quegli atenei – rispetto ai laureati del nord. Ora, nel corso del suo intervento alla Scuola di formazione politica della Lega, Salvini ha annunciato che “dovremo rimettere mano alla riforma della scuola e dell’università”. Questa volta la battaglia non è atenei del sus contro atenei del nord ma contro “la scuola e l’università che negli ultimi anni sono stati serbatoi elettorali e sindacali”. Per questo, aggiunge il vicepremier, “l’abolizione del valore legale titolo di studio è una questione da affrontare”
A dire il vero non è il primo a sollevare il tema. Se ne parla dal 2009 e per il M5s è un punto del programma. Ci aveva già provato Carlo Sibilia, oggi sottosegretario al ministero dell’Interno, nella scorsa legislatura. Oggi la nuova proposta di legge viene da Maria Pallini, deputata del Movimento, e punta sull’accesso ai concorsi pubblici: divieto di inserire il requisito del voto di laurea nei bandi dei concorsi pubblici. Ma per andare alla radici di questa battaglia bisogna risalire addirittura al 1947, quando fu lanciata dal secondo presidente della Repubblica italiana Luigi Einaudi.
“Finché non sarà tolto qualsiasi valore legale ai certificati rilasciati da ogni ordine di scuole, dalle elementari alle universitarie, noi non avremo mai libertà di insegnamento; avremo insegnanti occupati a ficcare nella testa degli scolari il massimo numero di quelle nozioni sulle quali potrà cadere l’interrogazione al momento degli esami di stato. Nozioni e non idee; appiccicature mnemoniche e non eccitamenti alla curiosità scientifica ed alla formazione morale dell’individuo”
Luigi Einaudi
L’idea è poi ritornata in auge a fasi alterne a partire da quel momento, ricorda , fino al 2010, quando il deputato bolognese del Pdl Fabio Garagnani aveva riproposto l’argomento e al 2011, quando era stato l’ex ministro della salute Girolamo Sirchia a sostenere che il valore legale del titolo di studio pone, al momento dell’ingresso nelle professioni, tutti i laureati sullo stesso piano, senza considerare la loro effettiva preparazione. E l’effetto è che le università non sono quindi motivate a investire sulla formazione e sul reclutamento di professori di alto livello.
Nel 2012 il governo Monti con il decreto semplificazioni ci aveva provato, riprendendo una iniziativa già sostenuta dall’ex ministro Gelmini: una misura, secondo il Coordinamento universitario Link caldeggiata sia da destra che da sinistra con un appello sul Riformista che aveca tra i firmatari Pietro Ichino e Francesco Giavazzi. Confindustria, da parte sua, vorrebbe sostituire il valore legale con rigorosi strumenti di accreditamento dei corsi di studio per certificarne il valore. Possibilista, quando ancora era sindaco di Firenze, Matteo Renzi, che ritieneva giusto “rottamare” il valore legale della laurea nell’obiettivo di creare una concorrenza virtuosa tra le università, anche per attrarre più studenti dall’estero.
Chi è a favore, chi è contro
La Crui, conferenza dei rettori, non si schiera, ammettendo di non avere una posizione ufficiale in materia, nonostante a tratti si sia mostrata possibilista. Sono fortemente schierati per il no, invece, i sindacati, l’Udu, la Rete29Aprile, Adu e Andu che sostengono che il provvedimento confligga con il principio costituzionale di pari opportunità perché penalizzerebbe i meno abbienti, discriminandoli poi nel processo di reclutamento professionale.
Che cosa è il valore legale del titolo di studio
A spiegarlo è Wikipedia: “secondo la scienza dell’educazione, è un certificato che attesta l’insieme di conoscenze e competenze apprese nel corso di studi”. Nel dibattito pubblico si parla genericamente e in modo astratto di “possesso di valore legale” da parte del titolo di studio intendendo l’ufficialità, la validità, o una combinazione di entrambe le caratteristiche, o di proprietà riconducibili a tali caratteristiche. Ad esempio, per quanto riguarda l’ufficialità, il “possesso di valore legale” segnala la diversità di certi titoli di studio rispetto ad altri attestati o scritture private che, anche provenendo eventualmente da soggetti socialmente autorevoli, non siano ricompresi nel novero dei titoli definiti o riconosciuti formalmente in modo ufficiale. Tipicamente le Autorità Pubbliche decidono di proteggere legalmente certi titoli individuando o selezionando con apposite autorizzazioni amministrative le istituzioni (scuole, Università ed analoghi enti) che possono concederli, e in questo modo esercitano un controllo più o meno diretto sul sistema di istruzione e di formazione che viene così definito.
Le ragioni del sì
Secondo i suoi sostenitori, l’abolizione del valore legale dei titoli di studio servirebbe a mettere in concorrenza tra loro le Università e ciò sarebbe il miglior rimedio alle molte inefficienze (dagli sprechi ai concorsi che non reclutano i migliori) di cui oggi soffre l’Accademia italiana. Se il titolo di studio non ha lo stesso valore legale assicurato dalla legge, ma solo quello che il mercato gli attribuisce, ogni università sarebbe costretta ad assumere i migliori docenti, a fare una migliore formazione, a offrire servizi più efficienti agli studenti. Avrebbe importanti effetti anche sulle assunzioni nella Pubblica amministrazione oggi inficiate dal valore legale poiché “costretta a far finta che ogni laureato abbia uguale preparazione, non riesce a selezionare i migliori”.
Le ragioni del No
Secondo la Link, l’abolizione del valore legale del titolo di studio non aprirebbe la strada ad una maggiore qualità dei processi formativi, ma anzi aumenterebbe la competizione tra gli atenei, creando atenei di serie A, dove studiare costerebbe moltissimo e atenei di serie B con costi molto più limitati, creando una dualità nel sistema formativo e perché questo aprirebbe a maggiore discrezionalità all’interno delle procedure concorsuali, con il rischio che candidati meno preparati di altri siano avvantaggiati non per le loro esperienze professionali ma per amicizie o le relazioni di cui godono.
Anche la Filt/Cgil punta il dito contro l’intenzione di mettere in concorrenza le università “visto che sarebbe il mercato a selezionare i veri e più in gamba professionisti del settore con l’affidamento allo Stato del compito di stilare una graduatoria delle università migliori in modo che quando proprio e soprattutto lo Stato ha bisogno di personale per le sue amministrazioni, attinga non basandosi sui punteggi del voto conseguito, che finora ha messo sullo stesso piano tutti i candidati con i rispettivi atenei, ma in relazione alla università di provenienza”.
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