AGI – Poche volte un libro è stato più tempestivo. ‘Il babbo ed io’, di Giuseppe Grazzini (Castelvecchi, 233 pagine, 19,50 euro) si presenta come un memoir già prezioso per il semplice fatto di essere stato scritto da un autore che appartiene a una generazione che si sta spegnendo, ma che diventa ancora più prezioso perché ci offre il racconto di una storia che si ripete.
Già nel sottotitolo – ‘Un’adolescenza a Roma durante la guerra – si intuisce che ciò che questo romanzo ci consegna non è un’invenzione narrativa costruita su frammenti di ricordi di famiglia, vecchie fotografia e mitologia bellica varia, ma la cronaca asciutta eppure appassionata di cosa abbia significato avere tra i dodici e i sedici anni in uno dei momenti più difficili della storia dell’Italia recente.
Beppino, di là da diventare l’affermato avvocato Giuseppe Grazzini, è a Roma nel 1943 quando quello che già andava a scatafascio precipita nel caos e nella distruzione. Appartiene a quella generazione (è nato nel 1928) cresciuta in una ideologia fascista già consolidata e fa parte di quella gioventù per la quale il Duce, la Patria e la nobiltà della spada che difende il solco tracciato dall’aratro non sono semplici slogan, ma assiomi indiscutibili.
Ma un adolescente è sempre un adolescente e, per definizione, in fermento. Lo sarà nel 1968 come lo era nel 1943, quando tutte le verità acquisite cominciano a sbriciolarsi.
‘Il babbo ed io’ non ha la pretesa di essere un saggio storico, non indaga le ragioni della pervasività del fascismo nella società italiana né quelle della sua caduta, ma ci offre uno sguardo straordinario e unico (unico perché di quella individualità che si fa universale) su quella che fu la vita quotidiana di questi piccoli uomini chiamati, come scrive l’autore, ad assumersi “assieme agli adulti, la responsabilità primaria
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